Recuperata in extremis dopo un secolare abbandono, la chiesa era in origine annessa a un monastero benedettino, noto attraverso le testimonianze documentarie; ha un’unica navata, piuttosto allungata, ed è conclusa da tre absidi, di cui quella centrale sporge all’esterno ed è decorata da lesene in pietra bianca collegate da archetti in mattoni.
Della stessa pietra è pure la facciata, composta da ricorsi di conci squadrati, e il portale definito da tre diverse ghiere ogivali: la prima è formata da conci disposti radialmente e arrotondati nell’intradosso, quella intermedia da una sequenza di cerchi con motivi geometrici, mentre quella più esterna presenta un motivo a unghia. Una fascia decorativa a rombi, forse in origine intarsiata con tasselli in pietra lavica, corre appena sopra il portale e si estende all’intera facciata, che nella parte sommitale presenta un oculo e due archetti per le campane.
L’austerità dell’interno, coperto da un tetto ligneo a capriate, era mitigata dagli affreschi che rivestivano la grande abside e le due minori ricavate nello spessore del muro (protesi e diaconico), risalenti a una fase successiva della fondazione; nei frammenti pittorici è possibile riconoscere la Vergine affiancata dagli Apostoli, a figura intera e in posa frontale, mentre nell’absidiola settentrionale vi è la figura di un Santo che si staglia su campiture di colore divise in tre campi.
Le pitture si estendevano anche alle arcate a rincasso che delimitano la conca absidale, recando nell’intradosso dei motivi geometrici a prismi triangolari, con facce alternativamente rosse e azzurre, mentre nei piedritti sono presenti degli ornati a racemi su fondo azzurro, contornate da fasce di colore rosso mattone e ocra.
A metà della navata sono presenti dei pilastri aventi l’alloggiamento per una trave trasversale, che possono essere interpretati come le parti residue dell’iconostasi in uso nelle chiese di rito ortodosso; inoltre, nello spigolo settentrionale della facciata resta un’iscrizione in lingua greca, purtroppo in parte abrasa. Di fatti la bizantinizzazione della Sicilia, messa in atto sin dal VII-VIII secolo, superata la dominazione musulmana, giunse al periodo normanno e perdurò a lungo, soprattutto nei monasteri dell’ordine di San Basilio; in effetti la chiesa della Cava presenta delle precise analogie con alcune chiese del Val Demone annesse a cenobi basiliani e in particolare con Santa Maria a Mili San Pietro (già esistente nel 1092) e ancora con Santa Maria del Vocante, nel territorio di Santo Stefano di Camastra, e Sant’Alfio a San Fratello. Il complesso della Cava può quindi datarsi agli ultimi decenni dell’XI secolo, poco dopo la conquista normanna della Sicilia.
Sul fianco nord della chiesa si nota un invaso quadrangolare su cui doveva insistere il chiostro; esso era connesso alla chiesa dal portale che si apre in corrispondenza del presbiterio e, come dimostra il rinvenimento della base di alcune colonnine binate, doveva essere porticato.
Il monastero, che nella seconda metà del Trecento dovette passare ai Benedettini, venne «arricchito di pingue dote dal conte Francesco II», mentre nella relazione del visitatore regio Francesco Vento del 1542 figura tra le grangie dell’abbazia benedettina di Sant’Anastasia nel territorio di Castelbuono. Da allora e fino a tutto l’Ottocento esso ricoprirà un ruolo quasi esclusivamente economico, legato al vasto feudo boschivo che si estendeva attorno alla chiesa, amministrato e concesso in gabella dai priori, i quali venivano direttamente nominati dai signori Ventimiglia; proprio alla loro committenza va collegata la pregevole tela di provenienza fiorentina dell’Annunziata, oggi esposta in chiesa Madre.