La mia prima ribollita l’ho assaggiata a Gambassi Terme dopo una tappa di 24 kilometri sotto il sole della Val d’Elsa che voleva farmi credere di essere ancora ad agosto, tra la polvere delle strade bianche e l’acqua che non bastava mai. Me l’ha servita un ragazzo gentile con uno spiccato accento toscano. Per me tutto era nuovo, lui al contrario mi ha lanciato un’occhiata distratta, come di chi vede viandanti ogni giorno.
L’idea di mettermi in marcia mi è venuta per caso, come quando ti viene in mente di mettere ordine nel garage: pensi di sapere cosa ti aspetta, ti ritrovi in un’impresa ciclopica di cui non riesci a vedere la fine. Sono arrivata poco preparata, con qualche errore di troppo dovuto all’inesperienza, ma con tanta voglia di provarci. Più di tutto mi affascinava l’idea di percorrere un cammino attraverso il tempo e lo spazio, nel cuore dell’Italia medievale, lontano dalle strade asfaltate, e di farlo a piedi.
Ah i piedi: conoscono la strada, la sentono, la mordono, sanno che direzione prendere. Pensiero seducente, di quelli che ti strapazzano il cuore e ti lasciano senza forze, proprio come alla fine del primo giorno, quando le forze sono venute meno proprio nell’ultimo kilometro ma ho scoperto di avere ancora una piccola riserva inaspettata, un’energia che mi ha fatto arrivare alla meta.
Troppo concentrata a macinare kilometri, a controllare il GPS, a verificare ogni crocicchio e a mantenere il passo secondo il ritmo che suggerivano le guide, mi sono persa lo spettacolo intorno a me. Il primo giorno è andato, morto insieme al sole che scompare dietro le colline coltivate a vite. Mi tocca ricominciare daccapo, con nuovo vigore e una nuova strategia.
L’alba è di quelle che lasciano presagire una nuova torrida giornata. E’ settembre, quel momento in cui la campagna esplode in tinte vivaci, emana profumi intensi di terra, uva, rugiada, il sole si fa più basso, riscalda e avvolge, accompagna il cammino proiettando la mia ombra sulla strada, allungandola verso sera, compagna di viaggio instancabile.
San Gimignano si eleva in cima alla collina, con le sue torri centenarie, i mattoni delle case e l’intrico del borgo medievale. La osservo da lontano diventare sempre più nitida tra i filari di vite, poi il cammino devia per la campagna, la perdo di vista, riemerge e si allontana. Sono gli scherzi che la strada fa al viandante: il percorso non segue la linea retta ma si attorciglia tra le colline, le scala e le ridiscende, attraversa campi coltivati, pievi, casali e poggi, si perde tra gli ulivi e le querce. E’ un tripudio di passi, un incedere lento tra la natura modellata dall’uomo. Hai tanto tempo per pensare lungo la strada, inizi a sentire il tuo cuore mentre le gambe volano leggere. Porti sempre con te un po’ di terra che hai calpestato e ti stupisci, la sera, pulendo le scarpe, di scoprire quanti colori essa abbia.
Ormai non guardo più la mappa, non mi interessa sapere quanti kilometri ho percorso e quanti ne mancano alla meta. Ero accecata da ciò che mi circondava, dai suoni che si facevano sempre più vicini nel mio lento ritorno alla civiltà, dai profumi di tartufo e cinghiale, dall’idea di essere in un posto speciale.
Si fa in fretta ad abituarsi alla solitudine. Abbandonare la strada asfaltata e riprendere le strade bianche diventa una necessità. Alcuni incontri rarefatti con altri viandanti, qualche cane che gironzola solo per le vigne, un capriolo impaurito, bovini, cavalli. La civiltà sembra lontana anni luce e quelli che all’inizio sono stati inseriti nella mia personale classifica alla voce “disagi”, iniziano a diventare piccoli, privati privilegi. Come dormire in un convento del XIII sec a Colle Val D’Elsa, che sorge su una collinetta isolata di fronte al borgo. Di notte la luce della luna illumina le case del Duecento, tutto è immobile nel silenzio assoluto.
Di nuovo sulla strada ormai consapevole di aver fatto più della metà del percorso, di aver visto quei filari di cipressi identici a come di avevo immaginati, di aver mangiato, di nuovo, la ribollita, aver fatto colazione con la ciaccia e la schiacciata, aver calpestato la stessa strada che Sigerico tracciò nel 990 d.C. Appagata da queste mie piccole ma importanti conquiste, mi addentro nella provincia senese. Le colline si fanno più alte e rotonde, gli ulivi lasciano spazio alle vigne, si sente un odore intenso di cavalli e di fieno. Sono impaziente di raggiungere Monteriggioni. Mangio la strada, misuro i passi, il cuore si fa pesante perché so di essere vicina alla fine del mio viaggio.
Poi, superata Abbadia a Isola, abitata sin dal tempo degli Etruschi, inizio la salita verso il borgo fortificato. Sembra un miraggio, una chimera, la pendenza mi spezza le gambe e lo zaino diventa un macigno. Mi fermo più volte lungo la salita al cospetto della corona di torri merlate, poi la porta d’accesso fino alla piazza con l’antico pozzo. Sono dentro la Storia. Mi perdo tra i vicoli all’ora del tramonto, torno verso la porta che guarda a ovest. Lontano si intravede San Gimignano. Quello era ieri.
Mi lascio alle spalle il centro storico di Monteriggioni, percorro le strade bianche della montagnola senese verso Cerbaia, antico borgo medievale oggi in stato di abbandono. Ogni tanto mi volgo indietro perché non riesco ad abbandonare l’immagine del borgo inondato dalla luce ambrata dell’alba.
Entro ancora nella boscaglia fino ai castelli della Chiocciola e di Villa, prima di scendere nell’alveo bonificato di Pian del Lago. Qui incontro i cacciatori e realizziamo che è sabato: avevo perso la cognizione del tempo. La strada mi ha rapita. Sono stanza, sento che comincia a mancare qualcosa, quel senso del viaggio, dello spostamento. Non mi interessa più arrivare ma attraversare.
Il bosco dei Renai è l’ultima oasi di natura prima della Porta Camollia, tradizionale accesso francigeno a Siena. La città che ho amato ancor prima di conoscerla è lì, le sue mura, le case addossate alla magnifica piazza, la Torre del Mangia che proietta la sua ombra sulla conchiglia, il Duomo che conserva l’impareggiabile pavimento a mosaico. La città del Palio, della sanguigna tradizione tutta toscana.
Tolgo le scarpe dopo 117 kilometri ma non mi sento più leggera. La voglia di ripartire, di percorrere una nuova strada è tutta nei miei piedi.