Marzamemi, ovvero ‘marsà al-·∏•amƒ?ma’, (baia delle tortore), così come gli arabi avevano battezzato il posto, quando ancora da queste parti erano loro ad abitarvi è  un borgo marinaro siciliano risalente al XVII secolo e località già nota ai tempi della dominazione greca in loco. Incastonato su una lastra di roccia che si affaccia sullo Ionio e posto geograficamente tra Pachino a (Sud) e Noto a (Nord), nella parte Sud Orientale dell’isola sicula, il piccolo borgo è da tempo luogo ben conosciuto alle cronache nazionali come centro turistico sia dei vacanzieri estivi che dei personaggi pubblici di fama nazionale ed internazionale. Eppure la “marsà al-·∏•amƒ?ma” che preferisco è quella che, lontana dai clamori estivi, in stagioni meno appetibili alla speculazione, fuori dai margini di guadagno dell’imprenditoria stagionale si offre al visitatore così come una bella signora un po’ attempata, nostalgica e decadente come solo un pomeriggio non estivo sà regalare, come la Venezia di “Anonimo veneziano” o come la Normandia di “Un uomo e una donna”.

Marzamemi

In inverno la pelle non è più abbronzata dal sole e si va a spasso avvolti da abiti più protettivi, in cui tutto diventa più personale ed intimo e tra di noi si parla raccolti a voce bassa quasi sussurrando. A voler girare per le sue strade si incontrano volti amichevoli che hanno il sapore di antiche amicizie, tutto ciò che è vivo che sia umano o animale, si riappropria delle antiche pietre. Sotto il timido sole siciliano invernale la luce tiepida e gialla ritinge tutto, il fruscio tra le pietre del leggero vento pomeridiano avvolge e ridà al contesto la sua antica vocazione di luogo dove ogni cosa è familiare alla vista e perché no, dall’anziano abitante del posto al vecchio cane che da una vita si aggira con placida confidenza tra i “maroti”. Marzamemi ha il potere come solo certi luoghi sanno, nei periodi stagionali fuori dallo strombazzare della pazza folla estiva, condurre il visitatore attento e non banale sulla strada della riconciliazione, se non con il “mondo infame” come cantava Venditti, almeno con il proprio silenzio interiore con la natura e quindi in ultimo con se stesso.
Scusate se è poco.